E l’Italia scoprì di non aver avuto nessuna politica industriale negli ultimi 30 anni…

8 02 2010

Alcoa, Fiat, raffinerie, il processo di deindustrializzazione dell’Italia sta accelerando. Ma quello che è peggio è che stiamo scoprendo di non avere mai avuto una vera politica industriale.

Fermiamoci un attimo a ragionare sulla tipologia di imprese che stanno chiudendo i battenti in Italia. Ci accorgeremo che stiamo assistendo al crollo delle famose “cattedrali  del deserto” che furono erette negli anni ’60 e ’70 con il solo scopo politico di garantirsi il miglior risultato occupazionale nel breve e e senza preoccuparsi che si trattasse di creare quel tessuto industriale che avrebbe poi, ad un certo punto, generato nuovo valore senza bisogno di continue, improduttive iniezioni di capitale.

Qui non desidero discutere l’aspetto sociale e dunque politico della cosa. Lascio il tema ai politici appunto.

 Il tema che mi interessa discutere è la logica (ammesso che ne esista una) della politica industriale che ha portato a scegliere  insediamenti di questa natura sapendo che non avrebbero in alcun modo creato un tessuto industriale perenne.

 Ragioniamo su FIAT e Termini Imerese per esempio.

 La fabbrica in questione è un sito di assemblaggio, collocato a duemila chilometri dal cuore dei mercati europei ed a millecinquecento chilometri dal resto dell’indotto, ovvero dal resto dei fornitori che forniscono le componenti necessarie all’assemblaggio finale. Le componenti di cui parliamo, inoltre non sono viti, bulloni o lamierati. Anni di “lean production”, “just in time” “Total Quality Management” hanno progressivamente “esternalizzato”  parti crescenti del processo di fabbricazione dell’auto sino a subappaltare componenti intere come i motori, le trasmissioni/cambi, i sistemi di sicurezza e così via. Dovere rifornire componenti così complesse da siti così lontani e dovere poi trasportare il prodotto finito sui mercati a distanze non inferiori rende la non competitività di un simile insediamento palese.

 Ciononostante si valuta oggi un investimento pubblico di 300-400 milioni di euro per il “rilancio”  di Termini Imerese. Pari a 300.000 euro per ciascun occupato. Il medesimo discorso potrebbe essere ripetuto per l’ALCOA ed altri ancora.

 Creare delle realtà industriali, che non sono in alcun modo connesse con il territorio, che non creano cultura industriale e d’impresa e che pertanto non fanno crescere un indotto, sono solo sperpero di denaro.  Se è vero che l’ALCOA ha beneficiato di uno sconto di un miliardo di euro sull’energia negli ultimi dieci anni, mi domando se quel miliardo o una ragionevole quota di esso investita sul territorio, per qualificare l’agricoltura, o il turismo o la nautica o una qualunque altra industria terziaria  avrebbe avuto un ritorno migliore.

 Ma questo avrebbe significato avere una politica industriale. Ovvero una strategia industriale. Identificare un progetto strategico per un territorio, condividerlo, creare le infrastrutture per realizzarlo, investire nella formazione, sviluppare le condizioni perché quell’area o quel distretto sviluppi un vantaggio competitivo durevole e difendibile.

Ma forse è davvero chiedere troppo ad una classe politica il cui orizzonte temporale, se va bene, sono le prossime elezioni, che, si sa, sono sempre dietro l’angolo.


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3 responses

8 02 2010
Th.

Chirurgico.

10 02 2010
Alessandro

Sadly true. A ben guardare non è solo la politica industriale ad esser mancata ma la politica in assoluto. O meglio, ce n’è stata fin troppa ma solo di un certo tipo.
Un saluto

3 03 2010
Riccardo Finco

Ritengo che la scelta di investire nel sud , così come accadde a Termini Imerese , fosse anche frutto di una periodo storico che a poco o nulla a che vedere con gli sviluppi successivi e più recentemente con gli effetti della crisi che hanno avuto un ruolo importante sulla revisione strategica dei piani di sviluppo industriali , inclusi quelli della Fiat.
Pur condividendo il giudizio sulla scarsa opportunità di investire in una regione che aveva già allora evidenti limiti logistici (anche se non mancano esempi industriali dove l’aspetto logistico è per certi versi ancora più complesso in quanto interessa trasporti di vetture da paesi oltre oceano…pur sotto altri presupposti di convenienza economica , vedi uno su tutti il cambio Euro/Dollaro….) il vero limite attuale di Termini Imerese come di altri palnat italiani è la bassissima produttività: in Polonia c’è un rapporto di quasi cento vetture pro dipendente con un solo plant , in Brasile di quasi 80 vetture con un unico plant mentre in italia su una media calcolata su cinque plant produttivi siamo a neanche 30 vetture per dipendente! dove sicuramente Termini Imerese non eccelle sugli altriper produttività.
Del resto , senza considerare i costi della manodopera , assolutamente più competitivi altrove , non è difficile capire come soprattutto su vetture di massa e con bassi profitti come quelle prodotte a Termini Imerese , i conti non possano mai tornare a prescindere dai costi logistici.
Detto questo , gli interessi a breve termine che fanno da driver per le decisioni strategiche prese dai nostri politici , non possono che essere disallineati con le reali esigenze di sviluppo nel medio lungo termine del nostro paese.
Forse era meglio investire in Sicilia in settori più affini alle potenzialità legate alla regione , penso al settore nautico o delle energie rinnovabili.
Di sicuro , anche in questo caso , la politica dimostra di non sapere governare sia per eccesso di miopia oltre che per difetto di competenze e cultura industriale , quella che ci manca ahimè rispetto a tanti altri paesi europei.

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